martedì 2 luglio 2013

Parole "ultra-conservative"? Non proprio.

Il mese scorso ho scoperto, tramite la pagina Facebook di Mazzetta, un articolo del Washington Post a firma di David Brown sulla presunta scoperta di “parole vecchie 15.000 di anni”.
Da bravo studente di Lingue Straniere (anche se dico in giro che studio Linguistica, perché fa più figo) l’ho letto e la prima reazione è stata quella di sollevare un ciglio, che è stato seguito a ruota dall’altro, fin quasi a toccare il soffitto. Tuttavia, non è mia intenzione smontare l’articolo, che riporta soltanto i risultati di uno studio, bensì proporre una spiegazione in parole semplici di cosa sia la famiglia linguistica indoeuropea e i motivi per cui alcune parole delle lingue indoeuropee si assomiglino.
L’articolo si apre con un breve virgolettato:
En.
“You, hear me! Give this fire to that old man. Pull the black worm off the bark and give it to the mother. And no spitting in the ashes!”
It.
“Tu, ascoltami! Da’ questo fuoco al vecchio. Strappa il verme nero dalla corteccia e dallo alla madre. E non sputare sulla cenere!”
A detta dell’autore, se potessimo tornare indietro nel tempo, fino alla preistoria, e dicessimo quelle stesse frasi a un cacciatore-raccoglitore dell’Asia in una qualsiasi delle lingue moderne è possibile che capisca almeno una parte di ciò che gli è stato detto. Questo è vero soltanto in parte e tra l’altro non è nemmeno una grande novità. I primi studi sistematici di linguistica comparativa risalgono ai primi anni dell’Ottocento, nella Germania del periodo romantico, proprio quando nasceva il sentimento nazionale in senso moderno, sebbene già da molto tempo fossero note alcune somiglianze tra lingue molto distanti geograficamente.
Risalgono alla fine del XVI secolo le osservazioni avanzate indipendentemente dal missionario inglese Thomas Stephens e dal mercante fiorentino Filippo Sassetti, che notarono rispettivamente delle somiglianze nella forma delle parole tra il sanscrito e il greco e il latino il primo, e tra il sanscrito e l’italiano il secondo.





Devah

Sarpah

Sapta

Asta

Nava


Dio

Serpe

Sette

Otto

Nove



Tuttavia fu solo nell’Ottocento, come abbiamo detto, che nacque la linguistica storico-comparativa, che arrivò a ipotizzare l’esistenza, in epoca preistorica, di una lingua da cui discendessero tutte le europee storicamente attestate, che queste osservazioni divennero oggetto di studi approfonditi e sistematici.
Risale al 1813, in un articolo comparso sul London Quarterly Review a firma di Thomas Young, l’introduzione del termine “Indo-European” per descrivere le somiglianze tra le lingue europee e quelle della penisola indiana. Grazie agli studi del tedesco Franz Bopp, che paragonerà sistematicamente le lingue europee e indiane antiche al fine di ricostruire questa lingua, tale termine diverrà di uso comune nella linguistica e nella filologia. Nel 1819 Jacob Grimm (sì, uno dei fratelli Grimm) formulò, sulla base di osservazioni già avanzate dal linguista danese Rasmus Christian Rask, la legge della prima rotazione consonantica (o Erste Lautverschiebung), che spiega le mutazioni che i suoni consonantici hanno subito nel passaggio dall’indoeuropeo al germanico.
A puro titolo esemplificativo, paragoniamo le seguenti parole:







Antico alto tedesco

Anglosassone

Latino

Greco

Sanscrito


Fader

Fæder

Pater

Pàter

Patar


Alto tedesco moderno

Inglese

Italiano



Hindi


Vater

Father

Padre



Pita




Ci si può accorgere già a colpo d’occhio che queste forme presentano una vistosa caratteristica comune: tutte quante finiscono con un fonema (suono) dentale.
Schema che rappresenta tutte le consonanti polmonari.
Le dentali sono raffigurate nel riquadro più grande.
Fonte: International Phonetic Association


Dal confronto tra queste (ma non solo: sono state prese in considerazione anche le forme delle lingue baltiche, di quelle slave, di quelle iraniche, ecc.) forme si è risalita a un’ipotetica forma originaria *PƎTÉR, dinanzi il quale si pone un asterisco per indicare che si tratta di una forma ricostruita e dunque non attestata. Ma non finisce qui. Il suffisso -TÉR, a sua volta, serve a indicare le relazioni di parentela. Non starò qui a elencare tutto caso per caso: basta una ricerca di cinque minuti su Google per trovare tutte le occorrenze.
Bisogna però evitare di lasciarsi prendere dall’entusiasmo. L’indoeuropeo non è una lingua come tutte le altre. Qualcuno dirà “certo, è una lingua morta!”, ma questa osservazione è in realtà errata. Una “lingua morta” o “estinta” è una lingua di cui si sa per certo che è esistita, dal momento che esistono documenti redatti in tale lingua. Lingue morte sono il latino e il sumero, mentre dell’indoeuropeo non abbiamo alcuna prova che sia effettivamente esistita. Tutto ciò che abbiamo in mano è la ricostruzione di alcune parole (o meglio, di alcune radici e desinenze) e di una grammatica, ma non abbiamo né documenti scritti (stiamo parlando pur sempre di una lingua in uso nella preistoria, il cui periodo unitario termina prima della fine dell’età del bronzo), né alcun madrelingua a cui poter chiedere.
In quanto lingua ricostruita a partire dalla comparazione di altre lingue storicamente attestate, l’indoeuropeo è una proto-lingua (Ursprache in tedesco, o proto-language in inglese) che, per quanto se ne possa approfondire lo studio, rimarrà questo: una costruzione dotta che, per quanto rigorosa, non potrà mai e poi mai essere dimostrata.
E se è già discutibile la ricostruzione dell’indoeuropeo, ancora più problematica è quella di una famiglia Eurasiatica e, continuando ad andare a ritroso nel tempo, di quella Nostratica (da cui, secondo alcuni, sarebbe discesa la famiglia Eurasiatica) e di quella Proto-Umana.

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